Dopo un percorso della durata di quattro anni, il 4 luglio scorso sono entrate in vigore le quattro direttive europee del pacchetto sull’economia circolare, che contiene obiettivi e indicazioni per promuovere un uso più efficiente delle risorse e una gestione virtuosa dei rifiuti. Gli Stati membri avranno tempo fino al 2020 per trasporre le norme europee nelle legislazioni nazionali.
Che cosa si intende per economia circolare
Il concetto di circular economy è “in giro” già da qualche decennio, ma solo negli ultimi anni le nuove tecnologie del riciclo avanzato, le biotecnologie, la stampa 3D, tecnologie digitali come big data, cloud computing e, non ultimo, i social network, ne rendono finalmente possibile la realizzazione.
Il paradigma dell’economia circolare parte dalla constatazione della finitezza delle risorse naturali, il cui consumo è maggiore rispetto alla velocità alla quale queste si rigenerano. Questo è vero soprattutto per l’Italia. L’Overshoot Day, ovvero il giorno in cui si consumano tutte le risorse rinnovabili disponibili in un anno, è stato per l’Italia lo scorso 24 maggio, più di due mesi in anticipo rispetto a quello globale, che si festeggerà il prossimo primo agosto.
Dunque, sulla base di questa considerazione, l’economia circolare propone un modello produttivo in cui il prodotto non finisce il suo ciclo-vita con lo smaltimento in discarica, ma viene reintrodotto nel processo sotto forma di risorsa – materia o energia – per lo stesso (o per un altro) circuito produttivo. Tale approccio ha un impatto trasversale su tutto il sistema produttivo e favorisce la nascita di nuovi modelli di business e opportunità di sviluppo economico.
Cosa prevedono le direttive
Esiste una scala gerarchica dei rifiuti alla quale si dovrebbero attenere gli Stati membri nella determinazione delle loro politiche in materia: la priorità deve essere prevenire la creazione dei rifiuti, in secondo luogo privilegiarne il riutilizzo (riparazione), segue il recupero di materia (riciclaggio e compostaggio) e il recupero energetico (digestione anaerobica e termovalorizzatori). All’ultimo posto lo smaltimento in discarica controllata. Questa impostazione è portata avanti dalla direttiva 2018/851, dove viene sottolineato che “gli Stati membri dovrebbero avvalersi di strumenti economici e di altre misure intesi a fornire incentivi per favorire l’applicazione della gerarchia dei rifiuti”.
La stessa direttiva prevede un obbligo per gli Stati membri che impedisce di qualificare come rifiuto qualsiasi sostanza che abbia i requisiti richiesti per l’End of Waste (cessazione della qualifica di rifiuto). Con questo termine si indica il processo di recupero al termine del quale il rifiuto non è più considerato tale ma riceve la qualifica di prodotto. In Italia questo tema è di particolare interesse perché una recente sentenza del consiglio di Stato (1229/18) rischia di ostacolare non solo l’applicazione di modelli di economia circolare, ma anche iniziative imprenditoriali che avrebbero ampie e positive ricadute economiche (qui un esaustivo approfondimento).
Una serie di obiettivi top-down vengono inoltre imposti per il riciclo dei rifiuti urbani, per il riciclo degli imballaggi e per lo smaltimento di rifiuti in discarica. La direttiva 2018/851 stabilisce una roadmap al 2035 di target sempre più ambiziosi per la quota di rifiuti urbani riciclati: 55% nel 2025, 60% nel 2030, 65% nel 2035 (oggi in Italia la percentuale è compresa tra il 42% e il 47%, ISPRA). La direttiva 2018/852 invece impone un obbligo di riciclo per tutti i rifiuti di imballaggio (prevedendo percentuali specifiche per plastica, legno, metalli ferrosi, alluminio, vetro, carta e cartone) di almeno il 65% entro il 2025 e almeno il 70% entro il 2030. Infine, la direttiva 2018/850 stabilisce che gli Stati membri dovranno adottare le misure necessarie per assicurare che entro il 2035 la quantità di rifiuti urbani collocati in discarica sia ridotta ad almeno il 10% del totale (oggi in Italia questa percentuale è del 25%, ISPRA).