Ogni anno circa 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani di tutto il mondo in conseguenza di falle nel sistema di raccolta, smaltimento e riciclo, oppure perché deliberatamente abbandonate nell’ambiente (il cosiddetto littering).
Di queste, oltre 230 mila tonnellate sono costituite da microplastiche di diametro o lunghezza inferiore ai 5 mm (Fact Sheet: Plastics in the Ocean, Earth Day Network). Queste particelle, effetto dell’erosione di pezzi di plastica più grandi esposti alla luce del sole e al moto ondoso, oppure prodotte appositamente come le microsfere per cosmetici e dentifrici, hanno la caratterista di non scomporsi mai completamente, riducendosi invece in parti sempre più piccole.
Questa sorta di “polvere” di plastica è ormai diffusa nei mari di tutto il Pianeta. Secondo una recente ricerca, il livello di microplastiche nelle acque marine superficiali italiane è paragonabile a quello che si trova nei grandi vortici di plastica del nord Pacifico (come il famigerato Great Pacific Garbage Pack). Elevate concentrazioni di frammenti di plastica, oltretutto della categoria di dimensioni più ridotte (<50 micrometri), sono state rinvenute persino nei ghiacci marini dell’Artico. Tutto ciò aumenta la probabilità di assorbimento di sostanze inquinanti da parte dell’uomo e degli ecosistemi della Terra.
Un rifiuto-risorsa poco valorizzato
Nonostante sia in costante aumento, la valorizzazione di questo tipo di rifiuto riveste ancora un ruolo marginale. Degli oltre 6 miliardi di tonnellate di rifiuti in plastica prodotti a partire dagli anni ’50 solamente il 9% è stato riciclato, mentre il 12% è stato incenerito. Il resto è finito in discarica o è stato disperso nell’ambiente. La Cina e i paesi del Sud-est asiatico, dove l’infrastruttura di gestione del rifiuto non è sufficiente a bilanciare il crescente utilizzo di oggetti in plastica, sono i principali inquinatori (si veda la seguente figura tratta da Plastic waste inputs from land into the ocean, Science 2015).
Gran parte dei rifiuti in plastica finisce nei mari trasportato dai grandi sistemi fluviali che attraversano aree densamente popolate. Una ricerca ha stimato che circa il 90% della plastica finita negli oceani vi è giunta trascinata da dieci fiumi, otto dei quali si trovano in Asia. È dunque nelle grandi metropoli, specialmente quelle asiatiche, che il problema trova origine ed è qui che andrebbe risolto, in primo luogo attraverso una più diffusa ed efficiente raccolta dei rifiuti in plastica prodotti dai cittadini (come sostiene l’organizzazione non-governativa Ocean Conservancy nel suo piano di azione).
Quale impatto sulla salute umana e sull’ambiente?
L’elevata concentrazione di plastica e microplastica in mare pone seri interrogativi sui possibili impatti per la salute umana. In effetti, l’ingestione di microscopici pezzi di plastica da parte di pesci o altri organismi marini potrebbe portare all’assorbimento di sostanze tossiche in grado di risalire fino all’uomo attraverso la catena alimentare. Tuttavia, gli studi in questo campo sono ancora insufficienti per poter parlare di un effetto paragonabile a quella che ha, per l’uomo, la contaminazione da mercurio nei pesci.
Secondo Standard & Poor’s, la dispersione di plastica in mare genera un costo sociale di 13 miliardi di dollari l’anno, riconducibile in prevalenza agli effetti avversi che provoca su turismo, biodiversità e pesca. Si tratta di meno del 10% del costo sociale e ambientale associato alla produzione e consumo della plastica, gran parte del quale è invece legato alle emissioni di gas serra derivanti dalla sua produzione e trasporto (The known unknowns of plastic pollution, The Economist).
Un male necessario o una risorsa per lo sviluppo?
Nonostante ciò, la plastica non andrebbe demonizzata in quanto tale. Come mette in evidenza lo scrittore-chimico Marco Malvaldi in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, la nostra civiltà così come la conosciamo oggi non sarebbe esistita senza la plastica. Il problema è che la maggior parte di essa viene utilizzata come materiale per il packaging e per altri usi di breve-brevissimo periodo, mentre solo una minima parte viene impiegata per usi strutturali (es. come rivestimento per cavi elettrici).
Ecco quindi che “se è vero che il riciclo e il riutilizzo della plastica che buttiamo via è un problema che va affrontato” si dovrebbe “agire anche a monte, e che l’utilizzo della plastica per scopi non strutturali andrebbe severamente regolamentato e, in certi casi, semplicemente proibito”. Dal canto suo l’Unione Europea ha lanciato all’inizio di quest’anno una strategia sulla plastica che punta, tra le altre cose, a rendere il packaging in plastica interamente riciclabile (o riutilizzabile) entro il 2030.
Una spinta ad una miglior gestione della plastica di scarto nel Vecchio Continente potrebbe arrivare dal bando, introdotto quest’anno dalla Cina, all’importazione di 24 materie prime secondarie destinate al riciclo, tra cui molti tipi di plastica. Nel 2017 l’Europa ha inviato un sesto dei suoi rifiuti in plastica in paesi terzi per essere riciclato o deposto in discarica, gran parte dei quali è finito in Cina.
Se, nel breve periodo, il vuoto di mercato potrà essere riempito da altri paesi del Sud-est asiatico come India o Malesia, nel medio-lungo periodo i paesi UE dovranno imparare a far fronte a un numero sempre maggiore di rifiuti in plastica. La speranza è che ciò porti, da un lato, alla riduzione della plastica monouso, dall’altro, ad un maggior tasso di riciclo o smaltimento sostenibili, grazie anche allo sviluppo di innovazioni tecnologiche come l’enzima mangia-plastica o i materiali polimerici riciclabili all’infinito.