Condivido con i lettori del Blog l’articolo di Laura Serafini, che ringrazio.
«Se il decreto sulle aree idonee resta nella versione attuale sarà impossibile lo sviluppo degli impianti rinnovabili. La definizione di aree idonee serve a ridurre a un terzo i tempi dei permessi in aree del paese predefinite. Con i criteri individuati, invece, per gli operatori sarà più conveniente paradossalmente andare a investire direttamente nelle aree non idonee».
Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura, non nasconde la preoccupazione per il decreto (in gestazione da oltre un anno e mezzo e ora all’esame della Conferenza unificata) che fissa obiettivi di sviluppo di impianti eolici e fotovoltaici nelle singole regioni ma al contempo individua paletti troppo stringenti, come la possibilità di utilizzare solo il 10% di un terreno ad uso agricolo per il fotovoltaico.
E ha messo nero su bianco le serie criticità in una lettera inviata i ministri Gilberto Pichetto Fratin, Gennaro Sangiuliano e Francesco Lollobrigida.
«Il decreto ha aspetti positivi, come il come il target di 80 gigawatt di rinnovabili entro il 2030, quindi molto prossimo al target proposto dal piano di Elettricità Futura» che prevede 360 miliardi di benefici economici. Altro aspetto positivo, aggiunge il presidente «è che inserisce un concetto di premialità tra le regioni più virtuose, anche se probabilmente andrà declinato meglio. E poi ci sono i poteri sostitutivi dello Stato per le regioni che non sviluppano la quantità di rinnovabili prevista. Sono elementi positivi che danno l’idea che si voglia seguire una road map».
Secondo Re Rebaudengo c’è però il risvolto della medaglia, che rischia di vanificare ogni sforzo. «Quello che certamente non va sono gli indici previsti per i terreni ad uso agricolo, che limitano al 10% dell’area a disposizione lo spazio dove costruire l’impianto fotovoltaico a terra e del 20% nel caso di agrivoltaico. Se il decreto rimanesse nella versione attuale direi che più che altro le aree vengono rese inidonee. In Italia i terreni sono tipicamente molto frazionati; se un operatore deve avere un’area 10 volte più grande di quella necessaria per l’impianto è evidente che diventa anche un’impresa mettere assieme il territorio necessario. E questo rischia di aprire un meccanismo speculativo sul prezzo dei terreni, con evidenti costi che poi inevitabilmente renderebbero il costo dell’energia».
Il presidente ricorda come in Italia i terreni ad uso agricolo non coltivati da oltre 5 anni siano moltissimi. «Capiamo che si voglia limitare l’uso degli impianti rispetto ai terreni agricoli – spiega – ma ricordiamo che per realizzare 85 gigawatt di rinnovabili è sufficiente lo 0,3% della superficie italiana».
Per sostenere lo sviluppo dell’agricoltura una soluzione potrebbe essere quella di «incentivare, se opportuno, di più le coltivazioni agricole qualora siano sostenibili» e questo utilizzando «le tasse pagate da tutta la filiera delle rinnovabili».
Quale potrebbe essere una modifica auspicabile? «Nelle aree idonee si può definire la densità complessiva dello spazio in cui possono sorgere gli impianti – afferma il presidente – ma definire una percentuale così alta sui terreni è controproducente. Avrebbe più senso il contrario: vincolare il 10 o 20% all’uso agricolo e non viceversa». Complessità ci sono anche per gli impianti eolici. In questo caso è previsto che possano essere realizzate pale eoliche solo se è presente una ventosità che garantisce 2.250 ore annue di produzione.
«In Italia ci sono poche zone con quel livello di ventosità – chiosa Re Rebaudengo – ma in ogni caso è un limite assurdo. Come si misura questa ventosità? C’è una grande variabilità della ventosità, come per gli altri fenomeni atmosferici: ad esempio i primi 5 mesi di quest’anno sono stati molto meno ventosi della media. Un operatore dovrebbe fare decine di milioni di investimenti; poi, a valle di una misurazione non performante, correrebbe il rischio di vedersi decadere le autorizzazioni».
Secondo il presidente il limite andrebbe eliminato e dovrebbe invece essere adottato l’esempio tedesco. «In Germania rispetto ai prezzi fissati a base d’asta per l’energia da impianti eolici sono previsti correttivi: cui se il vento è minore di quello previsto in base alla media storica, sono previste correzioni in aumento fino al 30 per cento della tariffa», osserva. Altra criticità del decreto: l’area di rispetto per un impianto rinnovabile per un bene definito patrimonio dell’Unesco o simili, può salire da 3 a 7 chilometri.
«Penso a regioni come la Sardegna e non solo – dice Re Rebaudengo -. Lì non si farebbe un impianto. Forse sarebbe necessario cambiare un po’ il punto di vista: gli impianti rinnovabili non sono necessariamente orrendi. Sono tecnologici, è vero, ma sono funzionali alla decarbonizzazione e non inquinano. Quando smettono la loro funzione possono essere facilmente smontati. Gli operatori accantonano fondi a questo scopo e pagano al Gse i costi per il riciclo dei pannelli . Non esiste industria più virtuosa e previdente per il dopo».
E poi c’è un effetto collaterale certo non secondario. «Auspico che nella conferenza unificata si ragioni su questi temi – chiosa il presidente – Perché se queste sono le regole, va ricordato che esse definiscono obiettivi vincolanti per le regioni. E se quegli obiettivi non sono raggiungibili le regioni saranno soggette a sanzioni economiche». Frattanto non decollano nemmeno le comunità energetiche, pensate per lo sviluppo dei pannelli nelle città. Il decreto ministeriale attuativo è tornato a Bruxelles a inizio giugno, dopo una prima notifica a avvenuta a febbraio. «Siamo stati sempre prudenti sull’impianto del decreto per le comunità energetiche, per via dei rischi rispetto a chi ha la responsabilità della gestione delle comunità energetiche – osserva il presidente -. Evidentemente queste debolezze dell’impianto originario sono state individuate anche dalla Commissione. Non ho però sufficienti dati per dare una risposta sul perché dopo tanto tempo non ci sia un via libera».
Leggi l’articolo di Laura Serafini pubblicato sul Sole 24 Ore.