L’economia circolare non è più un tema esclusivo degli addetti ai lavori ma si è imposto nel dibattito pubblico come uno dei pilastri della transizione verso una società più sostenibile.
Una grande attenzione alla circolarità è stata data in ambito comunitario con il Green New Deal e proprio in questi giorni in Europa si lavora alla bozza del nuovo Piano d’azione sull’economia circolare che la Commissione europea presenterà a marzo. Dichiarazioni sull’importanza dell’economia circolare sono arrivate anche dal Premier Conte che ha ricordato come l’Italia sia protagonista nel campo della circolarità.
L’economia circolare viene sempre più vista come un buon investimento per l’Italia: da uno studio realizzato da Federmanager in collaborazione con AIEE emerge che la circolarità potrebbe far crescere la produttività del 6,5% creando 500mila posti di lavoro nei prossimi 10 anni.
E’ vero che per alcuni aspetti dell’economia circolare non ci batte nessuno in Europa. Come riporta una ricerca condotta da Symbola, la nostra percentuale di rifiuti avviati a riciclo è più che doppia rispetto alla media europea, il 79% rispetto al 38%, e siamo primi anche per riduzione dei rifiuti con 43,2 tonnellate per milione di euro prodotto contro una media europea di oltre 89 tonnellate.
Questi vantaggi competitivi, insieme alle potenzialità che a medio lungo termine l’economia circolare potrebbe esprimere in Italia, si infrangono con una realtà ben diversa, come denunciano le Associazioni del riciclo le quali hanno chiesto al Ministro dell’Ambiente l’istituzione di un tavolo tecnico di confronto per scongiurare il sempre più probabile rischio di blocco delle raccolte differenziate dei rifiuti.
Le ragioni di questo stato di emergenza sono diverse, alcune legate a variabili del contesto internazionale, come la stretta della Cina sull’import di materiali dal nostro continente; altre, tutte nostrane, sono dovute all’assenza di una strategia nazionale dei rifiuti, all’eccesso di burocrazia e alla mancanza di una cultura dell’economia circolare tanto tra i cittadini quanto tra gli Amministratori locali.
Ma il motivo principale è senza dubbio l’assenza di un parco impianti adeguato a conseguire un ciclo integrato dei rifiuti, una situazione resa insostenibile dalla crescita della raccolta differenziata alla quale non ha fatto seguito un ampliamento degli impianti di trattamento.
Stiamo perdendo l’occasione di trarre valore dal settore dei rifiuti, sottovalutando un comparto che in Italia vale oltre 30 miliardi di euro e che la cattiva gestione sta trasformando in un peso crescente per le imprese. Secondo uno studio Ref Ricerche i costi di smaltimento hanno subito un’impennata negli ultimi due anni, aumentando mediamente del 40%, con un aggravio dei costi di quasi 1,3 miliardi per la sola industria manufatturiera.
Nel 2018 la raccolta della frazione organica del rifiuto solido urbano ha registrato un +4.4% in Nord Italia, +4,1% al Centro e 14,3% al Sud, come riporta Assoambiente, mentre la disponibilità di impianti sul territorio è rimasta pressoché invariata. Emblematico a riguardo è il caso della Sicilia, di cui si è recentemente discusso al 2° Ecoforum provinciale sui rifiuti e l’economia circolare organizzato da Legambiente a Bagheria.
A fronte di quote crescenti di raccolta differenziata, gli impianti integrati di digestione anaerobica e compostaggio sono la soluzione più sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico per il trattamento e il recupero della FORSU. Per uscire dall’emergenza la priorità va data con urgenza alla costruzione di impianti che producono biometano e compost permettendo di valorizzare al massimo le potenzialità del rifiuto organico in ottica circolare rispettando i criteri di sostenibilità e prossimità.